Settembre 2009 – estratto da “Del treno e di altri racconti”
California dreaming and Las Vegas drinking
“San Francisco non è la Grande Mela” questo è ciò che mi è venuto in mente quando all’aeroporto di New York ho appreso che la nostra coincidenza era già decollata. Ma andiamo con ordine.
Ancor prima di imboccare l’autostrada incappiamo in problemi tecnici che costringono al cambio del mezzo, Andre è ancora un po’ stordito dalla nottata e rotola giù dalla scaletta del bus, ci troviamo al buio e al freddo in attesa di un altro autobus. Qualche insulto spontaneo viene diretto all’autista spocchioso che qualche minuto prima aveva fretta nell’operazione di carico bagagli. Arriveremo a destinazione comunque in orario.
Al terminal di Malpensa troviamo il secondo ostacolo, l’aereo per New York sta subendo un intervento di manutenzione ad una gomma ed il decollo viene posticipato di ben due ore. Giusto il tempo necessario per perdere la coincidenza per San Francisco. In aeroporto sono già al corrente e veniamo quindi accolti da un banco informazioni predisposto. Mostrando ognuno il proprio biglietto io, Andre e Lolla veniamo indirizzati presso un volo diretto in partenza da li a poco mentre ad Albe viene assegnato un volo con scalo a Dallas, Texas, tocca separarci.
Mentre Alberto, da solo, riesce a salire sul suo aereo noi tre veniamo indirizzati da una parte all’altra del grande aeroporto, servendoci anche dello sky train dal quale si riesce a vedere, in lontananza, la sagoma di Manhattan. Da una parte ci viene data disponibilità per un certo volo, che cambia nel tempo di raggiungere l’imbarco, ci vengono date altre informazioni, camminiamo e ricamminiamo, chiediamo e richiediamo, gira e rigira dopo un’ora e mezza siamo ancora a New York ed il nostro aereo alternativo per San Francisco è decollato, anche lui.
Ennesima coda ed ennesimo banco informazioni della American Airlines, spiego tutto l’accaduto alla hostess di turno, nel frattempo fuori inizia ad imbrunire. Dopo un intero pomeriggio all’interno dell’aeroporto JFK vinciamo un soggiorno di una notte a New York, in un albergo poco distante dall’aeroporto. Trasporto in minibus compreso e tre voucher utili per pagare parte della cena.
La camera d’albergo è carina, con due lettoni coperti da numerosi cuscini. In televisione un canale d’informazioni mostra il nubifragio che si sta abbattendo proprio sul Texas, più tardi riceveremo notizie da Albe, sano e salvo a San Francisco.
Il mattino seguente risaliamo sul minibus e torniamo al JFK, questa volta l’aereo c’è e si parte puntuali per le sei ore e mezzo di volo che ci porteranno in California.
Anche all’aeroporto di San Francisco quando chiediamo informazioni ritroviamo risposte gentili come a New York. Recuperiamo il MiniVan che abbiamo prenotato su internet dall’Italia, si tratta di un Chrysler Town & Country, quello che da noi è commercializzato come Voyager. Sbrigata la burocrazia mi metto alla guida e, con Andre di fianco e Lolla nella seconda fila di sedili, tentiamo di orientarci per raggiungere la città. Nello stesso istante Albe sta sperperando le prime centinaia di dollari in shopping.
Una volta usciti dal parcheggio riservato agli autonoleggi percorriamo strade larghe e con le classiche indicazioni verdi che si vedono nei telefilm americani, cavolo, siamo realmente in California! La stessa California Dreaming dei Mamas and Papas, quella di Bear e del Mercoledì da Leoni, la California di Lords of DogTown, quella di Steve Jobs e dell’iPod e ancora la California dei Los Angeles Lakers e dei San Francisco 49ERS e potrei andare avanti all’infinito.
Raggiungiamo il Surf Motel su Lombard St, nella zona nord, in prossimità del Golden Gate bridge. Ritroviamo Albe che ci confessa che durante la nottata da solo non ha dormito molto perché un po’ agitato, ma che dal giretto che ha fatto in mattinata è entusiasta di San Francisco.
La stanza è spaziosa e carina ma scopriremo presto che al prezzo che appariva sulla prenotazione vanno aggiunte le tasse, perché qui tutti i prezzi esposti sono sempre al netto, anche al supermercato quando si va a fare la spesa, che strano.
Dopo una merenda da Mels, un drive-in che vanta un menù Home Style Cooking, ci dirigiamo verso il downtown di questa particolare città, caratterizzata da sali e scendi su ogni strada. Visita a “Onion” Square (la nostra nomenclatura per Union Square) ed alla famosa Powell St con i suoi caratteristici tram, che si arrampicano sulle sue salite, strabordanti di turisti. Ci sono un sacco di persone, tanti stili diversi e, ovviamente, negozi.
La città, quarta in California per numero di abitanti, è situata all’estremità occidentale dell’omonima penisola ed, oltre ai suoi quasi cinquanta colli (una bella prova per il cambio automatico del nostro mezzo), è famosa per la particolarità del suo clima “fresco” e della nebbia estiva che appare e scompare quasi magicamente, a testimonianza di questo sono le foto che scatterò nei giorni seguenti al Golden Gate bridge: quelle da Fort Point in cui appare quasi totalmente nascosto e, pochi minuti dopo, da Baker Beach in cui si vede per intero. Proprio il Golden Gate bridge è il simbolo della città e collega la penisola alla parte meridionale della Marin County. Il ponte non ha bisogno di presentazioni visto che appare in numerosi film e telefilm. Ciò che lo rende famoso è sicuramente la sua particolare colorazione arancione “internazionale” che fa si che sia anche più visibile nella nebbia.
Tornando al downtown si ha come l’impressione di vivere in una grande città ma con la vivibilità di un paesino ben organizzato. La zona grattaceli, quartiere finanziario, è caratterizzata dalla Transamerica Pyramid, che riuscivamo ad intravedere un po’ da ogni parte della città, senza però quasi mai trovarlo (e senza ricordarne il nome!).
La nostra prima serata inizia con una visita al Vista Point, l’estremità settentrionale del Golden Gate Bridge, dal quale si ha una bella visuale oltre che del ponte anche della zona dei moli di San Francisco.
Tornando nel downtown ci fermiamo per una birra in un Irish pub. Ordinate quattro birre medie sul punto di verificare sui nostri documenti che tutti abbiamo ventun anni, mi viene contestato il fatto che la mia patente, in formato cartaceo, non sia credibile, secondo loro è facilmente falsificabile. D’accordo, dimostro meno dei miei ventotto anni, ma sicuramente ne ho abbastanza per una birra. Invece no, mi viene ritirata la birra media che era appena stata poggiata sul tavolo in legno e richiesto di uscire. Aspetterò gli altri tre fuori dal locale, sul marciapiede, osservando una simpatica barbona che, ubriaca, vaneggiava e importunava i passanti.
Il mattino seguente ci dirigiamo al Golden Gate Park dove sorge la California Academy of Sciences, da poco restaurata da Renzo Piano, con all’interno l’istituto di ricerca ed il museo di storia naturale, un acquario ed un planetario. La cosa che forse colpisce di più la mia attenzione è la zona che riproduce le condizioni naturali dell’ambiente del Borneo, con tanto di farfalle che svolazzano libere.
All’uscita camminiamo spensierati nel parco, tutti, tranne Albe, che ha un’espressione cupa, come uno scolaro che non ha fatto i compiti e si trova spiazzato davanti alla maestra. Poco dopo ci confessa il motivo del suo turbamento, il giorno successivo ci raggiungerà la sua ‘amica’ Giulia, nonostante avessimo già trattato l’argomento in precedenza e, mettendola ai voti, era emerso un secco e ben ponderato NO.
Spostandoci ad est sulla Lombard St giungiamo alla famosa “serpentina” che, come per il ponte arancione, appare spesso in molti telefilm. Siamo in Russian Hill e la strada a due corsie diventa una ripida e stretta discesa a senso unico, costeggiata da casette colorate e con aiuole verdi piene di fiori che sbucano qui e la tra le spire di questo serpentello d’asfalto.
La parte nord – nordest è caratterizzata dalla presenza dei vari moli, come ad esempio il Pier 39 dove, una volta superato l’impatto aromatico che aggredisce le narici, si può ammirare una colonia di oziosi leoni marini. Al numero 41 invece partono le barche per uno dei penitenziari più famosi al mondo, Alcatraz. Oltre al Ferry Building la zona dei moli ospita numerosi ristoranti di pesce e crostacei, noi abbiamo optato per un locale della catena Bubba Gump dove, ovviamente, tutte le specialità sono a base di gamberi. Intravediamo il Bay Bridge, più lungo del Golden Gate ma meno famoso e poi nel pomeriggio siamo di nuovo a spasso per i negozi del downtown, in particolare Urban Outfitters che vende abbigliamento e accessori dei più svariati, Lomo comprese, a prezzi molto interessanti.
In serata cambiamo alloggio, ci spostiamo al Coventry Motor Inn, un altro motel sempre sulla Lombard Street, più economico e tranquillo, ma carino. Io ed Andre usciremo la sera in cerca di cibo e finiremo invece a bere birra in un pub karaoke poco distante, osservando le performance di improvvisati Eminem e Britney Spears e scambiando qualche parola con alcuni ragazzi.
Siamo alla nostra ultima giornata a San Francisco, ed il cielo del mattino è un po’ grigio. Torniamo nei pressi del Golden Gate Bridge per scattare qualche polaroid, poi seguiamo la costa fino a Baker Beach dove passiamo qualche minuto sulla spiaggia guardando l’oceano e la nebbia che pian piano abbandona il cielo. Poi di nuovo in carrozza a vagare senza meta tra le case in stile vittoriano di Haight-Ashbury fino ad arrivare, dalla parte opposta, a North Beach con la sua molteplicità di caffè e ristoranti italiani. Percorrendo le strade in salita e discesa Andre dirige la mia attenzione su alcuni folli che con le loro fixedgear, biciclette a scatto fisso, sfrecciano come folli lasciando lunghe scie di gomma in prossimità dei semafori per poi, ripartire al volo! Non immaginavo certo che un paio d’anni dopo, mi ci sarei appassionato.
Dopo un pasto tailandese non esaltante, nel tardo pomeriggio siamo nuovamente al San Francisco International per accogliere a bordo del van la quinta, ed inattesa, partecipante.
Lasciamo la città in direzione sud e dopo poco più di settanta miglia raggiungiamo Santa Cruz, cittadina affacciata sull’oceano pacifico che deve la sua notorietà al surf, da qui l’omonima marca di tavole, mute ed abbigliamento.
Nonostante la poca distanza che la separa dalla tappa precedente il paesaggio serale e l’accoglienza che ci viene riservata appena arrivati è totalmente diversa, così come i prezzi. Si è passati da una città con circa 800000 abitanti a questa rilassata cittadina che ne conta 55000 e che basa la maggior parte delle sue attività su Pacific Avenue e sulla beach boardwalk. San Francisco è fantastica, forse un po’ cara ma comunque una delle città più interessanti che abbia mai visto però qui, nella piccola Santa Cruz, avverto una sensazione differente già al primo assaggio, sarà anche merito del tono di quel ragazzo sulla sua station wagon a cui abbiamo chiesto indicazioni, non lo so, ma mi ispira.
Alloggiamo in un’unica camera al Seaway Inn, posso sentire la voce dell’oceano poco distante ma purtroppo non l’odore visto che il mio naso è un po’ intasato a causa del clima mutevole di San Francisco, passo così la prima serata in camera con un Tachiflu mentre gli altri escono per una birra.
A pochi passi dal confortevole motel c’è il Municipal Wharf, il molo che sorge poco distante dal vecchio parco divertimenti del Santa Cruz Pier. La nostra giornata trascorre così, dopo un burrito gigante di Fresh Planet, a rilassarci sulla spiaggia.
Nel tardo pomeriggio, seguendo la W Cliff Drive, con Andre e Lolla siamo arrivati fino al faro trovando però chiuso il Surfing Museum al suo interno. Ci siamo quindi goduti le evoluzioni sulle onde dei locals nella zona d’oceano sottostante il Lighthouse Point Park, per poi volgere la nostra attenzione sul palcoscenico di Steamers Lane, dove il sole è l’attore principale che si esprime in una fantastica interpretazione regalandoci un tramonto affascinante, il primo vero tramonto californiano.
Il mattino seguente il clima è mite ed il cielo pulito, tempo di riprendere la marcia verso sud. Per raggiungere Santa Barbara ci sono due possibilità: prendere la freeway 101 con le sue sei corsie che tagliano all’interno, oppure optare per la 1 che percorre tutta la costa ed ha una sola corsia per senso di marcia. La scelta è caduta sulla 1 e quindi, lasciata Santa Cruz, ci siamo addentrati per un centinaio di miglia di curve, talvolta immerse nel verde, talvolta a pochi metri dalla scogliera a strapiombo sul Pacifico. Il percorso si snoda tra parchi naturali e piccole cittadine e qualche ponte, il più suggestivo è sicuramente il Bixby bridge che unisce i due lembi di terra, a settantanove metri sopra l’oceano. Sostiamo nei pressi del ponte per fare qualche foto ed una fantastica polaroid e per osservare l’oceano e la natura circostante, il mio sguardo si posa sullo stesso paesaggio che fece impazzire Kerouac. Ci troviamo in un’area che apparentemente sembra non offrire particolari attrattive, nessuno di questi alberi e delle insenature naturali sono famosi e pubblicizzati come il Golden Gate bridge, ma la sua naturale unicità merita tutta la mia attenzione e ammirazione. Nel primo pomeriggio sostiamo presso una stazione di servizio per fare rifornimento e per mangiare qualcosa, sul retro c’è un praticello sul quale campeggiano alcuni moderni hippie.
Proseguendo verso sud, nei pressi di San Simeon, l’attenzione si sposta dal paesaggio agli spettrali banchi di nebbia che, ad intervalli, coprono l’oceano, le cittadine che si intravedevamo lungo la strada ed il cielo su di noi. Lo stesso fenomeno si verificherà più avanti passando da San Luis Obispo. Arriveremo nel tardo pomeriggio a Santa Barbara, avendo ancora molte tappe ideali da visitare non ci siamo soffermati e inoltrati nei paesini lungo il tratto di Big Sur, ma ne sono comunque rimasto molto colpito.
Nella ridente cittadina sull’oceano, impieghiamo un’oretta a trovare una sistemazione visto che quasi tutti i motel e gli alberghi sono completi per via di un festival musicale che si svolge proprio in questi giorni e anche perché in cinque le cose sono un po’ più difficili che in quattro.
La ricca cittadina si sviluppa principalmente sulla State St che porta fino alla fontana con i delfini, sul lungomare. Tutto intorno colline, anzi montagne di piccola taglia. Località di villeggiatura sia per giovani che per non più giovani è anche sede della University of California e conta poco meno di 90000 abitanti, nonostante la superficie superiore a quella di Torino (202 chilometri quadrati contro i nostri 130).
Il clima è buono, sia quello atmosferico che quello riferito alla vita locale, se di giorno infatti si può passeggiare per la State St o il lungomare la sera si apprezzano i numerosi locali di vario genere, sempre sulla medesima strada.
Trovo estremamente buffo sentire il mio nome pronunciato da un auto in corsa mentre con gli altri passeggio per le strade di una cittadina in cui mi trovo da un paio d’ore. Eccolo li, Roberto Frank, lo stesso delle scuole superiori e del primo viaggio in Messico e della mattinata a Malpensa in cui il nostro aereo aveva una ruota bucata. Sapevo che ci saremmo incontrati perché si trova qui per il matrimonio di un’amica ma incontrarlo così casualmente come se fossi a spasso per le vie della mia città è un’altra cosa! Si unisce a noi per la prima serata e ci diamo poi appuntamento per il giorno dopo in spiaggia.
Ecco, l’unica delusione di questo paesino felice viene proprio dall’oceano davanti alla spiaggia (quella al termine di State St) che non offre possibilità di onde surfabili, per lo meno non quando ci siamo stati noi, credo dipenda dalla posizione, ma poco importa, qui l’unico interessato all’oceano ed al surf sono io.
I nomi in programma per il sopra citato festival sono di tutto rispetto ma, purtroppo, il prezzo del biglietto non è proprio ottimale, considerando anche che conosciamo solo un paio degli artisti in locandina.
In compagnia di Lolla e Andre usciamo per bere un paio di cocktails al Sand Bar con in sottofondo l’esibizione dei Sashamon, un gruppo reggae proveniente dalle Hawaii che il giorno dopo si sarebbe esibito al West Beach Festival.
Lasciata Santa Barbara verso metà mattinata, c’addentriamo verso l’interno della California, dirigendoci per circa 355 miglia verso est, direzione Nevada. Dopo circa 150 miglia il paesaggio rilassato e mediterraneo viene sostituito da distese di terra arsa dal sole sulla quale resistono arbusti e alberi. La strada è per lo più sempre dritta, soprattutto superata Barstow, e le stazioni di rifornimento sono poco frequenti. Sono sdraiato nell’ultima fila di sedili che osservo il paesaggio canticchiando, numerosi i pensieri che compaiono e, dopo un attimo, scompaiono dalla mia mente, sembro quasi un autostoppista che ha trovato due coppie in viaggio di nozze disposte a dargli un passaggio. In lontananza ci fa compagnia un treno lunghissimo, forse il più lungo che abbia mai visto, conto circa novanta vagoni prima di perdere il conto.
Entriamo nella città del Vizio per eccellenza a metà pomeriggio, la Strip è trafficata, giriamo qualche lussuoso albergo prima di trovare la nostra sistemazione al MGM GRAND. Siamo in uno dei più grandi alberghi del mondo, una piccola città insomma, con al suo interno diversi ristoranti, sale da gioco e molto altro. Abbiamo subito la conferma che quanto scritto sulla guida è veritiero: “anche i poveri si sentono ricchi…”, infatti il prezzo della nostra suite da 1550 square feet (circa 145 metri quadrati) è tutt’altro che alto.
Ventesimo piano, alla fine di un lungo corridoio c’è la doppia porta con la targhetta 20141, passata la tessera magnetica ci troviamo davanti ad un ampio spazio con sulla destra un lungo divano, in centro un tavolo e sulla sinistra un piccolo bar, si un angolo bar vero e proprio all’interno della camera. All’ingresso sono collegate due camere da letto matrimoniali, dalle quali si accede a due bagni, entrambi con vasche idro-massaggio.
Il tempo di posare i bagagli ed io e Andre usciamo alla ricerca di un paio di bottiglie per brindare alla nuova sistemazione ed inaugurare il bar.
La Strip è senza dubbio il centro della vita di questa città costruita dal niente, in pieno deserto. Qui c’è di tutto, o per lo meno ci sono mega alberghi, casinò e locali, un ristorante identico alla Tour Eiffel, un albergo a forma di piramide di Giza, ed un otto volante che sfreccia tra gli edifici illuminati di una copia di Manhattan, con tanto di Lady Liberty! C’è persino una riproduzione di Venezia con il Canal Grande e piazza San Marco.
Insomma c’è tutto, compreso un esercito di persone che ti caricano di bigliettini con sopra fotografate biondone con le tette di fuori ed il relativo numero di telefono, tutto tranne che un negozio dove comprare un paio di bottiglie di vodka. Dopo aver camminato e chiesto innumerevoli volte finiamo in uno dei tanti negozi di souvenir pacchiani che vende anche birra, vino e bottiglie con cocktail già pronti, tutto a bassa gradazione, questo per non nuocere agli affari dei bar.
Delusi dal nostro bottino torniamo in camera con una bottiglia di vino ed una di un coca e rhum già pronto o qualcosa di simile, il ghiaccio lo si prende in uno dei distributori che ci sono ad ogni piano e si inizia con il primo aperitivo. Un secondo aperitivo lo consumiamo in uno dei bar all’interno del nostro enorme albergo e poi si esce per cena.
Tra qualche giorno sarà il compleanno di Andre, decidiamo di cenare presso il sofisticato ristorante del Bellagio, si, proprio quello che si vede nei film di Clooney. I prezzi sembrano alti ma se vengono rapportati all’ambiente in cui ci troviamo sono assolutamente adeguati. Finito di mangiare il gentile cameriere ci chiede se preferiamo cambiare tavolo e ci accompagna sul terrazzino, proprio alle spalle dello spettacolare gioco di fontane che tutti fotografano, beh loro lo fotografano dalla strada, noi abbiamo un posto in primissima fila. Il conto finale sarà di circa sessanta euro a persona, visto che tra pochi giorni sarà il compleanno di Andre decido di approfittarne per fargli il mio regalo pagando anche la sua parte.
La serata proseguirà entrando e uscendo da casinò e locali, per poi tornare in albergo dove sorseggio un’ultima birra con Lolla e Andre. Loro tornano in camera io resto ancora un po’ a vagare nella hall finché non incontro un paio di ragazzi inglesi. Bevo ancora una birra chiacchierando con loro, sono in vacanza per una settimana ed hanno deciso di passarla tutta qui, a Las Vegas. Noto un accento familiare e ricevo conferma che entrambi vengono da Manchester. Il collegamento è rapido agli Oasis e poco dopo sono nella loro camera ad ascoltare da un piccolo impianto creato collegando l’iPod a due casse portatili (ah.. dimenticavo, nella nostra Suite c’è invece a disposizione un dock apposito) registrazioni live del mio gruppo preferito con due concittadini dei fratelli Gallagher. Basta una chiamata in reception ed una trentina di dollari ed arriva su un secchiello con dentro venti birre gelate al punto giusto.
Parliamo degli Oasis e di altri gruppi inglesi, siamo al terzo secchiello di Corona, uno dei due prende dal tavolino una pila di bigliettini da visita di quelli con le donnine nude che distribuiscono sulla Strip. Passa circa mezz’ora ed un altro secchiello ed arriva una telefonata dalla reception, poco dopo bussa alla porta della camera una biondina in minigonna, che poco somiglia alla asiatica che aveva chiesto l’inglese. Mentre la ragazza spiega che vuole 150 dollari per parlare e altri 500 per tutto il resto io e l’altro ragazzo prendiamo tre birre a testa di quelle rimaste e salutiamo.
Nel corridoio incontriamo un gruppetto di ragazzi inglesi, il mio nuovo amico si aggrega a loro, io saluto e torno alla super suite.
Il giorno seguente ripercorriamo la Strip tutti insieme, Albe si fa fotografare con un sosia di Elvis che poi gli chiede il compenso, ed arriviamo fino al Venetian ed alla Stratosphere Tower. C’è gente ovunque, a tutte le ore un flusso costante di persone di tutti i tipi che camminano, bevono, bruciano capitali e cose del genere. Sembra davvero di trovarsi in una delle puntate di CSI Las Vegas, ma per fortuna non muore nessuno.
Poco lontano dalla Strip c’è il complesso del Palms, ed il Ghost Bar e la sua terrazza all’aperto, al cinquantacinquesimo piano, è il modo migliore per iniziare la nostra seconda ed ultima serata. Sorseggiare un vodka mandarin e tonic rivolgendo lo sguardo verso le luci della Strip è quasi magico. Anche in questo caso tra ingresso e prezzo dei cocktails è alla portata di tutte le tasche, senza contare che non ci viene contestato il fatto che non indossiamo abiti eleganti. Sempre all’interno del complesso si accede poi, con lo stesso visto d’ingresso, al Playboy Night Club, la discoteca situata al cinquantaduesimo piano della Fantasy Tower.
I nostri esperti in fatto di bar dicono che gli addetti sembrano preparati, dietro al bar fanno bella vista le bottiglie delle migliori marche di vodka, i cocktail costano sette dollari, si può pagare anche con la carta di credito e nel locale la festa si sta scaldando, devo aggiungere altro?
La tappa successiva doveva essere il Gran Canyon, ma è già faticoso lasciare la camera in orario, non siamo nella forma giusta per fare 280 miglia verso l’interno, quindi una volta ritirato il MiniVan dai garagisti del MGM abbiamo ripreso la 15 per tornare verso la costa, Santa Monica per la precisione.
Sono quello apparentemente più in forma e mi metto alla guida, stesso percorso dell’andata sulla striscia d’asfalto a due corsie per senso di marcia circondate dalle stesse distese di terra arsa dal sole, a bordo c’è la stessa atmosfera che si respira all’interno di uno di quei grossi autobus che portano le rock band in giro per le varie tappe dei tour.
Ci fermiamo per una pausa verso il tramonto in un centro che comprendeva una libreria, uno Starbucks e altri negozi. Albe mi da il cambio alla guida. Abbiamo qualche difficoltà ad orientarci nella zona tra Pasadena e Los Angeles, il cielo regala un tramonto dai toni forti, arriviamo a Santa Monica. Per trovare una sistemazione decente giriamo un’oretta tra motel completi ed altri con piccoli ospiti inclusi in camera, la lunga giornata volge al termine ed i postumi della nottata iniziano a lasciar spazio a pensieri e ragionamenti, scegliamo il Bayside hotel, una camera con due letti alla francese, comodi per quattro persone, e noi siamo in cinque.
Al risveglio splende il sole sulla città balneare a due passi da Los Angeles, dopo un giretto e vari disorientamenti finiamo a Venice e ci dirigiamo nella spiaggia attigua al molo. Proprio quel famoso molo, o almeno la ricostruzione dopo l’incendio, degli Z-Boys di DogTown, la stessa Venice beach di cui osservavo i murales sul diario delle scuole superiori e che compare in numerosi film tra i quali American History X o telefilm come Californication, Huff, The A-Team e tantissimi altri.
Onde non più alte di un metro e di scarsa forza, serie un po’ irregolari, fondale sabbioso. Tempo di digerire la nostra colazione/pranzo e decidiamo di noleggiare tre tavoloni, due 8’0″ per me e Andre ed una 9’0″ per Albe, ed entrare in acqua. Finalemente ritrovo il contatto con l’oceano, dopo circa un anno, e nella mia mente è subito pace e festa, non tanto nei miei muscoli poco allenati. Le onde non sono molto impegnative e la tavolona è una canoa, però è stata lo stesso un’emozione fortissima quel take off alla prima onda remata.
A testimoniare il nostro poco o quasi nullo allenamento usciamo dall’acqua dopo neppure mezz’ora, letteralmente sfiniti. Il resto della giornata lo trascorriamo in giro per le due cittadine, non capendo quasi mai quando si era nell’una piuttosto che nell’altra.
Il tramonto è una splendida visione dal ballatoio del Travelodge (il motel in cui ci siamo trasferiti per star un po’ più comodi) tanto che decido di staccarmi dal gruppo e attraversare la strada per andare a goderne la visione dal lungo mare e ne approfitto per fare qualche foto. L’Ocean boardwalk di Santa Monica in questo momento della giornata è ancora più popolato di persone di ogni età che corrono o pattinano o vanno in bici, ognuno si tiene in forma nel modo che più preferisce.
E’ davvero una bella cittadina, anche se troviamo qualche difficoltà ad orientarci nonostante, in teoria, abbia due sole vie principali e parallele. Qui termina anche la famosa Route 66.
Passiamo la serata sul molo a chiacchierare, senza disturbare i numerosi pescatori che cercano di tirar su qualcosa nell’oscurità. Il clima è molto tranquillo e rilassato e non c’è tantissima gente in giro, ben distanti dalla realtà di Santa Barbara diciamo. Mi capita più volte di isolarmi dai discorsi, incantato ad osservare ed ascoltare l’oceano, illuminato dalla luce della luna.
Lasciata la tranquillità della costa, spingendoci verso il downton di Los Angeles, ci imbattiamo nella famosissima Beverly Hills con le sue strade piene di negozi lussuosi, Bentley parcheggiate e Vip vari. Un cambiamento radicale di paesaggio, individui e abitudini. Una breve visita a Via Rodeo e Rodeo Drive, il tempo di gustarci in diretta una perquisizione di un paio di agenti a tre ragazzi afroamericani con una berlina tutta scassata e ci dirigiamo verso il downtown di Los Angeles dove troviamo sistemazione presso lo Stillwell hotel.
Durante le procedure di check-in è particolare l’incontro con un vecchio professore d’arte con il suo completo grigio pesante, la cravatta a righe ed un cappellino da baseball con la visiera piegata. Uno scambio di battute e mi rivela che collabora ad un progetto di scambio tra l’Università del Minnesota e quella di Firenze.
Scaricati i bagagli ci dirigiamo a Hollywood e per la precisione, sulla famosa Walk Of Fame, la strada con i marciapiedi sui quali fanno bella mostra le stelle dedicate ai vari attori, registi, musicisti e personalità varie e concludiamo entrando alla sede di Hollywood del famoso museo delle cere Madame Tussauds, non all’altezza della fama di quello londinese. Se Beverly Hills è proprio come la si immagina, questa tanto nominata e famosa via di Hollywood invece mi ha dato l’impressione di un’accozzaglia di negozi di souvenir poco originali e gente che si guadagna da vivere in costume chiedendo mance per le foto.
Los Angeles è la città più grande della California e la seconda di tutti gli Stati Uniti d’America. Si tratta in realtà dell’unione di piccole città che espandendosi sono arrivate al ‘contatto’ ed i suoi abitanti sono delle etnie più diversificate: ispanici, filippini, asiatici, afroamericani solo per citarne alcuni.
Nel downtown ci imbattiamo in un evento sponsorizzato dalla RedBull ed al conseguente mare di folla accorso, visitiamo il MOCA (The Museum of Contemporary Art), il Walt Disney Concert Hall con la sua affascinante e particolare architettura ed infine ci rechiamo allo Staples Center, luogo di culto per gli appassionati di pallacanestro ma che ospita anche altri eventi sia sportivi che non, come il funerale di Michael Jackson, deceduto qualche mese prima.
Recandoci all’osteria gestita da Gino Angelini abbiamo modo di vedere anche strade come la RossMore che, nel buio e nella vegetazione, nascondono ville che sembrano veri e propri castelli, case ‘da film’ insomma.
La cena nel locale diretto dal connazionale è semplicemente perfetta ed è piacevole farsi viziare. Usciti dal locale decidiamo di seguire i suggerimenti di uno dei camerieri italiani e ci dirigiamo verso i locali della Sunset Blvd, frequentati per lo più dai giovani ‘bene’. Verso fine serata invece usciamo per un paio di birre in un locale vicino allo Stillwell, dove il pubblico è invece composto da giovani meno appariscenti e sofisticati.
Il giorno seguente ci avventuriamo in salita sul pendio del Runyon Canyon Park, da dove si ha una vista globale dell’enorme agglomerato metropolitano e si riesce ad avvistare la celebre scritta HOLLYWOOD sulla collina costellata di enormi e lussuose ville, come quelle che poco dopo vedremo attraversando Bel Air.
Continuando a girare con il minivan mi rendo sempre più conto di quanto sia estesa Los Angeles e di quante differenti realtà comprenda, inizio a pensare che per conoscerla bene e farsene un’idea più veritiera bisognerebbe dedicarci molto tempo, e non parlo di giorni ma di mesi e anni.
Seguendo la costa verso sud sostiamo presso Newport Beach, anche questo posto famoso per essere la location di un telefilm, OC. Ci troviamo nella Orange County. Passiamo un po’ di tempo sulla spiaggia per rilassarci un po’ e godere del sole. C’è poca gente e sembra che tutto quello spazio sia solo per noi. Tra la distesa di sabbia è la strada sorgono una serie di casette bipiano in legno, alcune di proprietà dei residenti , altre in affitto per vacanze. Si respira un clima diverso da quello ispirato dai numerosi camper e furgoni adibiti ad abitazioni visti qualche chilometro prima ad Hungtinton Beach. Alle spalle delle casette passa la Pacific Coast Hwy oltre la quale inizia la zona residenziale, c’è molto verde. L’unica nota stonata in questo bell’ambiente è la vista in lontananza di quello che sembra un insediamento industriale o qualcosa di simile.
Mangiamo qualcosa da Ruby’s, un Mel’s in tema bianco e rosso, e si prosegue verso Laguna beach e Dana point, dove le distese di sabbia vengono sostituite da scogliere a strapiombo sull’oceano.
In serata raggiungeremo Pacific Beach, dove decideremo di stabilirci presso un hotel della Best Western, dove otteniamo un po’ di sconto visto che sono lavoro per un albergo della stessa catena a Torino. A dire il vero la nostra meta era Ocean Beach, ma non abbiamo trovato una sistemazione adeguata e quindi abbiamo ripreso la Mission Bay blvd verso nord.
Il mattino seguente ci rendiamo conto di dove realmente siamo. L’albergo è a cinquanta metri scarsi dalla spiaggia, preceduta da una stretta linea di cemento dove si alternano ciclisti a runner e skater. Una distesa di sabbia di un’altra cinquantina di metri lascia spazio poi all’oceano e alle sue onde (più tranquille di quelle intraviste la sera prima passando da Ocean beach). Piccoli stormi di gabbiani e albatros si procurano il cibo tuffandosi in picchiata.
Parlando con dei ragazzi del luogo scopro che in passato Pacific Beach era per lo più popolata da giovani, surfisti e studenti di college è che ora sta via via cambiando con l’espansione della zona e l’afflusso di persone più grandi e abbienti, il tutto porta ad un aumento di prezzi e affitti.
Questa ‘zona’ di San Diego è anche una delle più ricche di vita notturna con decine di bar e ristoranti che spuntano come funghi sulla Garnet Ave, anche se di giorno ha invece un’atmosfera poco congestionata e molto gradevole. Anche qui, come a Newport, ci sono varie casette bipiano sul affacciate sulla spiaggia, ma hanno un’aria più dismessa, meno curata.
La Mission Blvd, che la collega a nord con La Jolla e a sud con Ocean Beach, è l’altra arteria principale ed è qui che sorgono le varie attività commerciali come taquerie, surf shop, lavanderie a gettoni e studi di tatuatori.
Qui ho modo di passare un po’ di tempo in spiaggia prima in compagnia di Andre e poi da solo, incantato a guardare l’oceano, i gabbiani e gli albatros. Nella mia mente inizia a farsi strada a spintoni tra gli altri pensieri quello di fare un viaggio un po’ più lungo del solito, magari partendo proprio dalla California per poi andare verso il centro ed il sud America, ma questa, è un’altra storia.
Una lieve pioggia pomeridiana ci regala una visione incantevole, sono sulla spiaggia con Andre e Lolla, di fronte a noi l’oceano ed il sole che lentamente tramonta, alle nostre spalle un lungo e sottile arcobaleno che taglia i nuvoloni grigi.
Siamo arrivati al trenta settembre, ci spostiamo venti minuti più a sud per raggiungere l’ultima tappa prevista nel nostro itinerario, San Diego.
Seconda città più popolata della California dopo Los Angeles, è situata poche miglia a nord del confine con il Messico, questo fa si che abbia un clima mite anche d’inverno. E’ sede di varie basi dei marines e la sua economia oltre che sul turismo è basata infatti sull’industria militare, sui cantieri navali, sul commercio marittimo e sull’informatica.
Ma San Diego non è solo questo!
Parcheggiamo il Chrysler e sistemati i bagagli Marina Inn, un motel sulla Pacific Hwy che affaccia sulla San Diego Bay, iniziamo a camminare verso il centro. Il downtown è compatto, molto comodo da girare, più di quanto si pensasse. L’ex quartiere a luci rosse Gaslamp è ora il centro della vita della città, con una variegata concentrazione di locali sulla Quinta e nei dintorni. Quelli che una volta erano bordelli ora sono bar con musica dal vivo, ristoranti dove puoi scegliere il taglio di carne che preferisci e grigliartelo da solo, sushi bar con musica hiphop e camerieri senza occhi a mandorla o ancora club alla moda.
La cosa che ci lascia subito stupiti sono gli orari, la nightlife si svolge molto più presto che da noi ed è facile già alle 22:00 imbattersi in comitive che bevono e ballano nei club e anche di vedere due poliziotti in bici che ammanettano un giovane colpevole solo di camminare con andatura ondeggiante sul marciapiede.
A nord del Gaslamp Quarter, tornando verso il motel, c’è Little Italy che è in tutto e per tutto identica alla visione ideale che chiunque può farsi di un quartiere di vecchi immigrati italiani. Ci sono le bandierine italiane, le insegne dei ristoranti e dei bar con i cognomi più tipici del nostro bel paese, i vecchietti vestiti a festa seduti sulle sedie poste sui marciapiedi e tutto il resto.
Guardando oltre la San Diego Bay s’intravede la Coronado Island, un mondo a se, un’isola rilassata su cui sorge l’enorme e pittoresco Coronado Hotel e le casette tutte curate, sembra un’altra città. Raggiungiamo l’isola percorrendo con il minivan uno spettacolare ponte che disegna una strana curva sulla baia e, una volta arrivati, restiamo subito colpiti dalla cartolina rappresentata dalla visione d’insieme su San Diego.
A nord di San Diego i quartieri Hillcrest e Uptown non offrono nulla che richiami particolarmente la nostra attenzione, dedichiamo un giretto con il fedele MiniVan e niente di più.
L’ultimo giorno facciamo una breve escursione a La Jolla, sedici miglia più a nord, subito dopo Pacific Beach. Paesino carino che ricorda un po’ Biarritz per ricchezza e conformazione. Ci sono varie gallerie d’arte e cafè carini e un’insolita piccola colonia di leoni marini sulla scogliera, peccato per il tempo un po’ grigio perché la collina sulla quale sorge è molto carina ed ha una bella vista sull’oceano.
Nel pomeriggio si torna alla base per riconsegnare il MiniVan e poi si va sulla 5th per cenare e bere l’ultima birra per la quale viene richiesto di esibire un documento.
Siamo al termine delle tre settimane ed è il momento del ritorno. La sveglia suona prestissimo, Giulia ha il volo il giorno successivo al nostro, noi quattro invece saliamo su un enorme Cadillac Escalade che ci porta all’aeroporto, si parte puntuali per NewYork. Come per l’andata, anche il ritorno ci riserva una sorpresa! Il diluvio che si abbatte sulla metropoli fa ritardare di due ore la nostra partenza, due ore che passiamo a bordo della scomoda aeromobile American Airlines . Poi si decolla, poco meno di nove ore e siamo a Milano Malpensa.
Termina qui la mia prima esperienza in California e negli Stati Uniti d’America. Non essendo da solo a viaggiare la scelta del minivan si è rivelata vincente, tanto per la comodità che per l’economicità negli spostamenti. Dai finestrini spaziosi abbiamo osservato vie trafficate, scogliere sull’oceano, verdi colline e terre desertiche disseminate di arbusti, solo alcuni dei paesaggi che può offrire questo stato. Muoversi in auto, oltre che comodo, è estremamente facile perché le strade sono in buone condizioni e ricche di indicazioni, inoltre la benzina costa relativamente poco rispetto ai prezzi cui siamo abituati in Italia.
La California non è solo grandi strade che attraversano fantastici paesaggi, da quel poco che ho avuto la possibilità di vedere si notano tanto le “stravaganze” del Sistema americano quanto la cordialità dei suoi abitanti. Certo le reazioni ed il trattamento sono differenti se ci si trova davanti ad un modaiolo di San Francisco piuttosto che ad un local di Venice o un latinos di Los Angeles, però non ho mai notato atteggiamenti negativi, in nessuna situazione.