Ricordo benissimo quando, al ritorno dal mio primo viaggio in Giappone, dissi devo tornarci il prima possibile per vedere il nord! ed eccoci qui, dieci anni dopo.
Il viaggio e Sapporo
Il viaggio è lungo, da Torino a Milano in macchina, poi aereo per Parigi, aereo per Tokyo, primo ciotolone di ramen caldo e altro aereo per Sapporo. Decido di usare uno dei miei superpoteri preferiti, quello di dormire appena salgo su un aereo.
Arrivo che sembra notte piena, in realtà è pomeriggio, c’è tantissima gente in giro e tanti neon scintillanti. Raggiungere l’appartamento non è stato difficile ma ammetto che il mix di stanchezza e confusione un po’ si sono fatti sentire. Tempo di lasciare gli zaini e sono già in giro, sotto una leggerissima pioggia. Prima destinazione il quartiere di Susukino, dove ero passato poco prima, riconoscibile dalla grande immagine al neon del logo del Whisky Nikka. Affamato mi dirigo verso lo storico vicolo del Ramen, ma arrivo quando ormai le code erano fatte e l’attesa inestimabile. Continuo a camminare a caso e finisco proprio in uno di quei buchi famosi per il jenjisukan, quel piatto a base di montone che all’orecchio vi suona come Gengis Khan perché è proprio la traslitterazione giapponese del nome del condottiero mongolo. Piatto della tradizione, anche se ormai in Hokkaido di pecore e montoni ne sono rimasti ben pochi, ma questa è un’altra storia. Riesco a ritrovare l’appartamento anche percorrendo altre strade e concludo questa infinita giornata iniziata il giorno prima.
La prima notte è sempre la più difficile ma riesco a riposare quanto basta per essere pronto il mattino dopo a godermi una fantastica giornata di pioggia. Che poi in realtà piove poco ma c’è un vento costante che te la butta addosso. A poca distanza dall’appartamentino ho il famoso mercato del pesce Nijo, prima tappa della mia giornata, ma no, questa volta non me la sono sentita di iniziare la giornata così, ho optato per un paio di normalissime brioche. Nel mercato, più compatto e meno caotico rispetto ai miei ricordi di Tsukiji, ci sono esposti pesci veri e pesci in plastica che pubblicizzano quelli veri. Vivi, morti, appena pescati, scongelati, insomma un po’ di tutto. Passo avanti, mi incammino verso la torre della televisione che avevo adocchiato la sera prima. Per farlo seguo il corso del fiume, torrente, Toyohira che taglia in due la città, capoluogo dell’Hokkaido, con i suoi due milioni di abitanti. Visto il meteo decido di rimandare la visita a questa torre e preferisco quella dell’orologio, poco più avanti, che mi attrae subito per la sua anomala architettura, poco giapponese. In passato era una struttura militare, poi una biblioteca e oggi è appunto un museo e spazio per eventi. Da appassionato di orologi e spinto dall’insistente pioggia decido di visitare il piccolo museo, ricco di modellini (cosa che ritroverò in diverse attrazioni) che ne raccontano la storia e la ristrutturazione e foto storiche. Al piano di sopra si può ammirare la meccanica che anima l’orologio e, dalla parte opposta, la statua dorata di William Smith Clark, che qui a Sapporo fondò il Sapporo Agricultural College. Di fronte alla statua un piccolo podio che permette alla gente di farsi una foto con lui (sì, ovviamente l’ho fatta).
La pioggia molla un po’ e quindi è il momento di prendere scale e ascensore per salire in cima alla Torre della Televisione per godere della vista che si vede quando si cerca la parola Sapporo su internet, ovvero la vista sul lungo parco Odori Koen con sullo sfondo le montagne. Certo, il cielo grigio la sminuisce un po’ ma è comunque splendida. Subito dopo mi inoltro tra la gente e le bancarelle di cibo del festival d’autunno e percorro alcuni degli isolati del parco, ammirandone i tantissimi e diversi fiori e facendomi trasportare dai vari odori. Senza accorgermene finisco poi su una strada chiusa, dedicata al Sapporo Rainbow Pride con i suoi arcobaleni, i banchi informativi, gli spettacoli e i gadget.
Arriva il momento di sfruttare a pieno la mia nulla conoscenza del giapponese e chiedere informazioni ad un vecchino poliziotto per capire se il tram che stavo per prendere fosse quello giusto visto che la famosa app di mappe mi diceva che si trovava qualche centinaia di metri più avanti. Beh tra gesti, mille ringraziamenti da ambe le parti, e un po’ di parole tradotte a caso, ho ottenuto l’informazione, era il tram giusto. Direzione funivia Iriguchi per salire sul Monte Moiwa, il luogo da cui gli Ainu guardavano tutto. Ci vogliono due cabinovie per arrivare su. Mi era già capitato nel precedente viaggio in Giappone, quello di trovarmi ad un’altezza non proprio da montagna ma sembrare molto molto più in alto, forse per l’aria pulitissima e freschissima, ma in realtà si tratta di appena 531 metri sul livello del mare, insomma più basso della Basilica di Superga. Una volta su, si gode di una vista su tutta la città, sulla baia e sulle montagne, nonostante ci siano ancora molte nuvole. Da qui ci sono vari sentieri escursionistici, decido di stare tranquillo e visitare solo i dintorni con il micro tempio.
Torno giù in tempo per prendere al volo il tram e godere del sole che finalmente butta via i nuvoloni e regala quei colori che tanto mi piacciono. Il tempo di lasciare zaino e fotocamera all’appartamento ed esco per cena, presto rispetto agli standard italiani, ma non per quelli locali. Questa volta però non mi ci va molto a finire in un locale, dove dopo aver imparato a memoria il menù grazie al traduttore del telefono, capisco che non servono cibo ma solo bevande, si, era un bar. Mi scuso tra le loro risate, e mi sposto nel locale subito dopo. Un buco di pochi metri quadrati, buio e fumoso. Mi accomodo al bancone e inizio ad ordinare vari yakitori, quei piccoli spiedini insomma. Mentre ero intento a guardare i disegni della camiciola pseudo-hawaiiana del cuoco inizia la mia prima vera conversazione con una persona del luogo. Un signore sulla sessantina, corpulento, seduto alla mia destra con davanti vari boccali di birra vuoti inizia a chiedermi che ci faccio lì. Parla un inglese molto elementare ma, al momento, è il primo a parlarlo in due giorni che sono qui. Arrivano i primi spiedini, a lui un’altra birra, si spazia dal motivo del mio viaggio, al calcio, al no future e via discorrendo, finché non mi saluta per avvinghiarsi su una signora che entra indicandolo. Proseguo la cena con altri ordini, le porzioni qui sono sempre microscopiche, e detto da me che non sono proprio un mangione potete crederci. Pago, saluto ed esco nell’aria fresca della sera. Purtroppo mentre rientro in appartamento ricevo la terribile notizia della scomparsa di Luca Salvadori, resto incredulo. Vado a letto presto perché domani si guida.
Parco Nazionale Daisetsuzan
Dormo poco e male, non riesco proprio a mandare giù che una persona così speciale e sorridente se ne sia andata ma, è il rovescio della medaglia per chi ama gli sport motoristici e la velocità. I miei zaini erano già pronti perché dovendo stare pochi giorni in ogni tappa tiro fuori solo il necessario. Lascio il piccolo ma comodo appartamento e mi incammino tra gli isolati di Sapporo, è lunedì mattina, ma non è ancora troppo caotico, la pioggia ha lasciato spazio al sole. Trovo il palazzone con la scritta Nissan Rent a Car, sbrigo le procedure in un quarto d’ora e mi ritrovo a bordo di una Nissan Note e-Power 4wd, una compatta ibrida nera. Giusto il tempo di farmi impostare il navigatore in inglese e mi viene chiesto di lasciare libero il varco, chiedendomi di fermarmi più avanti a bordo strada per impostarlo. Avevo già guidato con la guida a destra e quindi tenendo la sinistra, sia in Indonesia che in Australia. Impiego poco a capire le dimensioni dell’auto e, seguendo le indicazioni del navigatore, mi avvio verso la prima tappa della parte on the road di questa vacanza. Guida attenta ma rilassata, zero musica perché l’umore non è dei migliori. Sosta ad Asahikawa per mangiare qualcosa al conbini e prendere delle provviste, la struttura dove mi sto recando è in mezzo al nulla, non ci sono ristoranti o supermercati nei paraggi. Nel frattempo incontro uno dei mostri sacri delle auto giapponesi, una Nissan Skyline R32, Godzilla. Finisco i miei onigiri e scorgo prima una Mini classica e poi due Yaris GR messe giù bene. Mi rimetto alla guida, la cittadina lascia spazio al verde e mi ritrovo su una striscia d’asfalto con curve morbide e qualche tornante di tanto in tanto. In alto ci sono delle frecce che indicano per terra, più avanti scoprirò che servono a indicare il bordo della strada quando questa è coperta di neve. Tanto verde, diverse piazziole di sosta ai bordi, qualche segno di pneumatico probabilmente della notte precedente. Raggiungo senza problemi Asahidake Onsen, la struttura che ho scelto è un grande ostello situato a un chilometro dalla fine della strada, dove mi recherò domani. Ho una camera singola privata, inizialmente senza bagno, poi con bagno. Si accede alla struttura lasciando le scarpe all’entrata e usando le ciabatte che vengono fornite. Passeggiata nei dintorni, aria fresca, cielo quasi pulito. Poi rientro in camera per lasciare tutti i vestiti e procedere verso il mio primo onsen pubblico. Ebbene sì, nella mia passata esperienza giapponese, quando mi trovavo ad Hakone, avevo una camera con vasca onsen privata, qui invece sono in una struttura molto più umile ed economica, ma ci sono i bagni termali pubblici. Mi affido a quello che fanno le altre persone intorno a me, spirito di adattamento e imitazione, lascio tutti i vestiti nell’armadietto e mi tengo solo l’asciugamano piccolino. Doccia da seduto per lavarsi bene bene e poi si entra nelle pozze d’acqua bollente. Anche se ho percorso meno di 200km sono stato tante ore alla guida e questo è quello che ci vuole per rilassarmi e prepararmi all’escursione del giorno dopo. In realtà resisto pochi minuti immerso, davvero troppo caldo e umido, ma noto una porticina, quella che porta sulla parte aperta dell’onsen e qui si che è meraviglioso. Immerso fino al collo nell’acqua bollente con la testa fuori al fresco, asciugamanino in testa, vista sugli alberi della foresta circostante. A cena scambio qualche parola con un vecchino giapponese con una maglia da bici con scritto Passo dello Stelvio, ma convinto che si trovi sul Camino de Santiago, evito di infrangere le sue competenze e ci facciamo due risate insieme.
Ci siamo, è il momento di salire sulla vetta più alta dell’Hokkaido, sul tetto dell’Hokkaido. L’Asahidake con i suoi 2291 metri sul livello del mare. Mentre faccio colazione vedo però le prime gocce di pioggia, mi vesto da montagna, prendo la Nissan e arrivo al parcheggio della funivia. Qui succede una cosa che in tanti anni di montagna in Italia non mi è mai successa, l’onestà. Il parcheggiatore è il primo a dirmi che la cabinovia è attiva e funzionante ma che la vista è pessima sia arrivati su che soprattutto sulla vetta. Decido comunque di salire, avendo solo un paio di settimane a disposizione ho purtroppo un programma abbastanza netto da seguire. Ad accogliere me e gli altri escursionisti una nebbiolina mista pioggia che rende la visibilità scarsa. Decido di incamminarmi, lentamente, vedendo fin dove potevo arrivare in sicurezza. Supero senza vederli quelli che erano i laghetti più vicini e mi ritrovo già all’imbocco del sentiero che porta in cima. La scalata non è lunga, meno di tre chilometri, ma decisamente ripida, circa 700 metri di dislivello. Il paesaggio circostante è avvolto dal grigio, si vede solo il rosso chiaro che ho sotto i piedi, ogni tanto interrotto da rocce nere, un po’ di vegetazione, nient’altro. Ci sono altre persone, sia in un verso che nell’altro, proseguo. Si vede poco, c’è silenzio, interrotto solo dal rumore delle campanelline attaccate agli zaini di alcuni vecchini. Man mano che salgo arrivano vampate di zolfo, ma la valle dell’inferno non si vede. Si alza il vento, piove pochissimo, ma quel poco di acqua ti viene lanciata addosso dal vento forte. Continuo, faccio un pezzo con un paio di ragazzi, poi si staccano e rallentano. Io sto salendo piano ma regolare, con diverse soste per tentare di fotografare e filmare qualcosa, il grigio. Arrivo a poche centinaia di metri dalla vetta quando il vento sparisce, ma è solo una trappola, poco più avanti riprende a tirare forte e buttare acqua, ma ormai sono lì e raggiungo il palo che indica la cima. Oltre a me c’è solo una signora che sta aggiungendo strati al suo abbigliamento. Di solito vado in montagna per godermi silenzio e paesaggio, questa volta il paesaggio non c’era, il silenzio si ma interrotto dalle campanelle ma tutto questo è bastato a pulirmi un po’ i pensieri e alleviare il dolore. Ci salutiamo, purtroppo non si vede niente, faccio qualche foto e mi preparo alla discesa. Quando sono quasi tornato alla base della funivia il vento, da cattivo diventa buono e inizia a scoprire un po’ del paesaggio. Le pozze d’acqua che riflettono la natura circostante che, guardando il gps, erano proprio sul percorso fatto all’andata, invisibili. Si vedono anche le fumarole della jigokudani, la valle dell’inferno. Poi proprio sul finire del percorso si apre la vista su una vallata con i colori dell’autunno già ben presenti, spoiler, sono gli unici che vedrò perché tutto il resto dell’isola è ancora verdissima. Prima di riprendere la macchina mi fermo alla base della funivia per un bel tonkatsu, che non è una parolaccia ma un piattone di riso con sopra una cotoletta di maiale impanata, quello che ci vuole per reintegrare l’escursione, fatta senza acqua, senza cibo e, a detta del gps, tra i dieci più veloci di sempre. Tornerò poi in ostello e questa volta nell’onsen ci starò un bel po’ a rilassare i muscoli.
Parco Nazionale Shiretoko
Ovviamente il mattino dopo il cielo era quasi totalmente sgombro e ammetto che ero fortemente tentato di risalire su e scalare nuovamente la montagna ma, mi aspettava un bel trasferimento verso est, anche in questo caso non tantissimi chilometri, circa 300, ma tante ore, poco meno di cinque. Il paesaggio montano lascia spazio a quello di campagna, tanta campagna, ma ordinata, sembra di stare in uno di quei plastici ferroviari ordinati e dettagliati. Lungo la strada sosto in una sorta di capannone per degli spaghetti soba immersi in un brodo caldo. Mi rimetto alla guida, si vede finalmente il mare, raggiungo l’alberghetto che ho prenotato che è proprio sul mare, dalla finestra della mia camera all’acqua ci sono meno di cinque metri. Lascio i bagagli in camera e anche se ho guidato tanto e l’ambiente marittimo circostante è estremamente rilassante riprendo subito la macchina e continuo verso est. Passo una manciata di edifici e mi addentro nel verde, vado piano, mi godo curva dopo curva, incrocio i primi cervi, a bordo strada, per nulla preoccupati dalla mia presenza. Arrivo all’ingresso del parcheggio dei laghi del Parco e anche qui, altra sorpresa, il parcheggiatore mi dice che tra un’ora chiude e di non preoccuparmi, non devo pagare il parcheggio ma mi prega di tornare per tempo. Lo ringrazio, mi ringrazia, parte quella danza tipica di mille ringraziamenti, prendo zainetto e fotocamera e inizio la passeggiata sulla passerella di legno. I colori del tramonto rendono un paesaggio che già di suo è bellissimo, ancora di più. Ai bordi della passerella è tutto verde, dovrebbero esserci degli orsi, ma non credo siano li ad aspettare me che cammino al tramonto. Raggiungo uno dei laghi, mi fermo ogni metro a contemplare e fotografare quello che mi circonda. Oltre a me ci sono un signore vestito da corsa e una coppia di signore. In meno di un’ora che avevo ho percorso tutta la passerella in un senso e nell’altra, godendo di un meraviglioso tramonto sul mare, con le montagne alle mie spalle. Tornando in città do un passaggio a un ragazzo che faceva l’autostop, uno spilungone francese che vive in Giappone da anni e che ora sta girando l’Hokkaido, mi conferma quella che era la mia idea prima di partire, l’automobile è il mezzo ideale per questa parte del Giappone, visto che autobus e treni non arrivano proprio dappertutto. Ci salutiamo, mi ringrazia, torno in città per un’altra sorpresa, la luna piena che illumina la baia e non uno ma ben due fari visibili dalla mia stanza.
Il mattino seguente devo già ripartire ma no, non parto subito, una visita al vicino centro culturale e al parcheggio con tanti camperini carinissimi. Torno sulla strada della sera precedente ma questa volta vado verso il Passo, lo Shiretoko Pass. La strada è fantastica, una serie di curve e pendenze dolci, avvolta dagli alberi, per un attimo vorrei avere con me la mia bici da corsa. Poi arrivo sulla cima, ad accogliermi c’è un vento che a momenti sposta le keicar presenti, ma non la mia Nissan. La vista sulle verdi montagne e con il mare sullo sfondo è meravigliosa, non lo faccio mai al termine di ogni viaggio ma questa volta mi sento di dire che questo è stato il posto che più mi è piaciuto, anche se vissuto per pochissimo tempo. Faccio qualche foto e mi faccio fare qualche foto dalle persone presenti, noto un signore con una verdissima Lotus Elise, ci salutiamo con un cenno, è tempo di andare. Non prima di un’altra breve sosta a bordo strada per ammirare le cascate Oshinkoshin.
Parco Nazionale di Akan
Nel viaggio verso la parte centrale dell’isola sono di nuovo a percorrere sterminate campagne e strade immerse nel verde, fino a raggiungere il Lago Kussharo. In realtà stavo solo cercando un posto dove fare pipì dopo tutto il tè bevuto e mi ritrovo in questa spiaggetta la cui mascotte è un dinosauro che si chiama entusiasmo. C’è poca gente e le barchette a forma ci cigno sono tutte ancorate. Riprendo la strada verso quello che da prima mi sembra un bunker ma che poi si rivela quello che cercavo, un museo dedicato alle tradizioni Ainu. Il biglietto d’ingresso, come in altri posti qui in Hokkaido, ha un prezzo esiguo, la signora all’ingresso credo superi tranquillamente i duecento anni. All’interno del museo ci sono abiti tradizionali, testi, utensili e addirittura una barca. Succede una cosa buffa, ero diretto verso il bagno e la gentile anziana mi fa cenno che potevo sedermi che avrebbe pensato lei ad avviare il DVD nella saletta cinema. A me si aggiungono un trio di signori anziani, parte questo video sgranato, su un enorme tv ad alta risoluzione, tutto in giapponese. Da quel poco che riesco a capire racconta due cose principalmente, la prima che spiega alcune tradizioni per le quali il popolo Ainu si occupava di crescere ed allevare i cuccioli di volpe e orso rimasti orfani a causa della caccia, e che gli adulti cacciati invece tramite un rituale vedevano la loro anima riportata alla terra degli dei, ma questo prendetelo con le pinze. La seconda parte del video invece saltava direttamente al 1986 e alle proteste degli Ainu in seguito ad affermazioni poco carine del primo ministro giapponese.
Riprendo la Nissan per dirigermi verso il secondo e ultimo lago di giornata, Akan, che da il nome al Parco Nazionale. Mancano meno di cento metri all’albergo quando noto ferme a bordo strada un sacco di persone che fotografano, ci sono dei cervi, altri cervi, ma in mezzo alla città, cioè tra un combini e una casetta, su un piccolo prato verde. Raggiunta la struttura, dove ho prenotato una camera in stile tradizionale con vista sul lago, lascio i bagagli ed esco con la speranza di ritrovare i cervi, ma erano già andati via. Proseguo allora la mia passeggiata, a casaccio come al solito. Incrocio prima uno strano tavolo di pietra, che scopro poi essere una sorgente termale dove pucciare i piedi. Successivamente mi inoltro in un parco seguendo le indicazioni per il vulcano di fango. Alberi alti, verde scuro, tanto personale addetto che sistema quelle che all’inizio pensavo fossero fototrappole ma che poi mi hanno spiegato essere proiettori. Con il calare del buio nel parco vengono proiettate immagini e suonata musica che richiama il vulcano e le tradizioni locali. Le pozze di fango bollente, come ci si può aspettare, sono grigie e puzzano di vulcano, ma è particolare vederle a pochi centimetri dalla superficie calma del lago. Torno verso la via principale della città percorrendo altri sentieri, mi fermo più volte ad osservare il lago. Purtroppo è tardi per prendere la nave che porta sulla sponda opposta, dove c’è il centro per l’osservazione delle Marimo, quelle alghe piccole e tondeggianti che negli ultimi anni addobbano le case di noi occidentali. Risalgo la strada fino a quello che è il museo Ainu di questa località, come da guida, più turistica e attrezzata rispetto a Kussharo e infatti mi ritrovo in una sorta di vialetto, ad accogliermi un grosso gufo, negozietti da un lato e dall’altro e museo e totem a fine strada. Ma quello che attira la mia attenzione è dalla parte opposta, un cerbiatto che passeggia in mezzo alla strada, fregandosene dell’auto che arrivava, con naturalezza. Arriva il tramonto, non particolarmente affascinante ma da quel tono di luce migliore a ogni cosa.
Parco Nazionale Shikotsu Toya
Dopo la colazione tradizionale che vedete nella foto qui su, con riso al curry dolce, salmone e tutto il resto è ora di rimettersi sulla strada. Un po’ di pioggia, diversi lavori stradali ma mai un vero e proprio rallentamento. Resto sempre affascinato dalla quantità di omini che si occupano dei lavori stradali, anche quando magari si tratta di piccoli interventi di manutenzione. Raggiungo Noboribetsu Onsen, una piccola cittadina affollata di grandi strutture, che a dirla così non è proprio il massimo ma in realtà si rivelerà molto di più della pura apparenza. Eseguo il check-in automatico davanti ad un computer, nonostante l’impiegata fosse al mio fianco, e salgo su in camera. La struttura, da fuori fatiscente, all’interno si rivela nuova e molto curata, ma come al solito, lascio giù la borsa ed esco a esplorare i dintorni. Non percorro neanche dieci metri quando incontro un bel cervo nella piazzetta vicina. Il mio obiettivo per chiudere la giornata è la Jigokudani, si, anche qui ce n’è una, una valle dell’inferno. Ad accogliermi ci sono due grandi statue, una rossa del demone caldo e una blu del demone freddo, mi ricordano i due impiegati dell’inferno che accolgono Goku in Dragonball. La vallata marroncino chiaro, circondata da alberi e con le sue bocche fumanti si presenta ampia ma, come sempre in Hokkaido e in Giappone in generale, facile da esplorare perché organizzatissima. Seguo la camminata in legno fermandomi più volte ad osservare il paesaggio, poi decido di proseguire e arrivare sulla cima della collina per avere una visuale diversa. Scopro che ci si poteva arrivare anche in auto, ma dopo tutta la mattinata a guidare una bella camminata ci stava. Fatta una lavatrice mentre vado a cena mi ritrovo nel bel mezzo della parata con la banda che suona e le majorette, così, a casaccio. Dopo cena mi dirigo nell’onsen dell’albergo, non è un granché, ma è colpa mia che non ho capito una grafica illustrativa che… ve lo spiego più sotto.
Sveglia presto e inizia la giornata di esplorazione dei due laghi che danno il nome al Parco, lo Shikotsu e il Toya. Piccola nota per il Gianni del passato: sono due tappe che avrei potuto fare una avvicinandomi a Noboribetsu Onsen e l’altra lasciando la cittadina, non serviva prenderla come base come consigliava la guida. Ma ci sta, purtroppo come dico spesso, avendo pochi giorni a disposizione, perché fidatevi due settimane sono pochissime, bisogna programmare tutto in anticipo.
Nuvoloni, qualche goccia sul parabrezza, decido di procedere prima verso il lago Toya e poi, con un giro in senso orario, dirigermi verso lo Shikotsu. Expressway, poi uscita e altre strade immerse nella vegetazione. La cittadina sul lago è ordinata e apparentemente deserta, il lago si presenta grigio, con un grande isolotto verde al centro e un barcone che lo attraversa. Seguo la passeggiata del lungo lago, mi fermo a guardare delle grosse carpe che si nutrono di quello che alcuni ragazzi lasciano cadere in acqua. Ci sono diverse sculture sul lungo lago ma davvero, il cielo grigio non me lo lascia apprezzare fino in fondo. Riprendo l’auto, mi rimetto alla guida finché non intravedo un grosso dinosauro giallo a bordo strada, no, non ho bevuto, è una sorta di pupazzone pubblicitario posto all’ingresso di un’area di sosta che, visto l’orario mi invita a fermarmi. Entro dentro questa grande struttura, metà mercato, metà ristorante. Ci metto un po’ a capire di cosa si tratta, finché non scorgo un enorme fungo che ricorda quelli di Super Mario, è un intero locale dedicato ai funghi. Si possono comprare in qualsiasi tipo di formato ma soprattutto il ristorante serve solo ricette a base di funghi, di ogni tipo. Mi avvicino al macchinario che serve per ordinare e, aiutato dalle figure, scelgo degli udon con funghi e carne. Ovviamente temperatura dell’inferno ma buonissimi! L’acqua, come sempre, è inclusa.
Riparto con l’umore migliorato dal ciotolone e da qualche raggio di sole che inizia a bucare le nuvole, la striscia d’asfalto continua a inoltrarsi nel verde, l’autunno rosso forte che mi aspettavo non è ancora arrivato, ma qualcosa di rosso forte c’è. Un ponte, di ferro, ex ferroviario, che apre la vista sul secondo lago di giornata, lo Shikotsu. Parcheggio a pagamento seguendo le indicazioni di un vecchino tanto gentile quanto marziale nei movimenti. Attraverso una piccola via piena di distributori automatici e localini dove poter mangiare ed eccomi davanti allo specchio d’acqua, anzi, in realtà prima c’è un fiumiciattolo di un blu verde intenso con alcune canoe e sup, e poi sì, eccolo lì il lago. Circondato di vegetazione e con le montagne sullo sfondo, la luce, questa volta bella, cambia tutto. Tempo di fare diecimila foto ad una ragazza che mi ha chiesto prima di farla in un modo poi nell’altro poi in un altro ancora, e mi godo la passeggiata. C’è tanta gente ma non c’è caos, non c’è rumore.
Lattina di Boss, caffè freddo, che solitamente non bevo, non il caffè freddo, proprio il caffè, ma oggi ci sta. Una volta tornato in albergo provo a chiedere in un mix di inglese e giapponese da traduttore se ho interpretato bene l’opuscolo che era in camera e ricevo risposta positiva. Signore e signori, la mia umile struttura mi offre l’accesso all’onsen dello storico Takimotokan, il glorioso e lussuoso hotel dall’altro lato della strada. Inutile dire che sono tutti gentilissimi ad accogliermi e darmi le indicazioni per raggiungere il bagno termale più antico della cittadina. In questi giorni ne ho visti diversi ma questo è tutta un’altra cosa. Le dimensioni, è grande, molto grande (segue foto del modellino) ci sono diverse vasche ognuna con acqua con minerali differenti e con spiegati i benefici, sia in giapponese ma finalmente anche in inglese e poi, poi la parte migliore, le enormi vetrate che regalano una vista in prima fila sulla Valle dell’Inferno dove ero stato il giorno prima. Ma non finisce qui, c’è ovviamente anche una parte esterna, dove si apprezza ancora di più la vista e lo stacco di temperatura tra acqua termale e frescolino del tardo pomeriggio. Ciliegina sulla torta volendo si può anche prendere da bere, c’era un gruppetto di giapponesi poco distanti da me con il loro vassoio galleggiante pieno di birrette. Nel frattempo cala l’oscurità, perché se non l’ho già scritto sopra, qui il buio arriva presto ed è buio buio.
Hokuto e Hakodate
Ebbene sì, vi starete chiedendo se dopo quattro Parchi Nazionali è ora di visitare cose più normali ma purtroppo no, la risposta è no, perché quando guidi da ore sotto una leggera pioggia e sul navigatore leggi un nome che ti riporta di botto alla tua infanzia, di normale non c’è proprio nulla. Ero diretto ad Hakodate, la prossima tappa del mio giro quando ho letto la parola HOKUTO. Ho accostato per informarmi, mangiato qualcosa e sì, è proprio la cittadina da dove si è preso ispirazione per uno dei cartoni animati più cazzuti della mia infanzia, KEN IL GUERRIERO. Scopro che la cittadina è proprio in direzione della mia prossima meta e quindi esco prima dalla expressway, l’autostrada. Piove poco, vengo accolto da una serie di camioncini fumanti di cibo, tanta gente nonostante il grigiume. Passo davanti alla mascotte del luogo, una sorta di sushino nudo, poi entro nella stazione JR. Non devo prendere uno Shinkansen, sono alla ricerca della statua celebrativa del mio eroe. Statua che è talmente piccola e buttata in un angolo che ci passo davanti almeno tre volte prima di trovarla, nel frattempo ho girato un po’ tutta la stazione e, ammetto, mi sono di nuovo fatto fregare da quell’ 1F che per me è il primo piano ma che qui, come in altri posti del mondo significa piano terra. Eccola li, la statuetta del più tosto dei tosti, quello che con un dito faceva esplodere i suoi avversai, Kenshiro, quello delle sette stelle e della sacra scuola di Hokuto. Una statuetta di un metro, con di fianco un po’ di testo e le stelle e dietro un paio di disegni. Mi basta, mi emoziona. Ma è tempo di proseguire.
Fino a questo momento le sistemazioni in cui ho soggiornato, che fossero appartamenti, case o ostelli, erano di facile accesso e con il parcheggio attiguo. Hakodate è il primo ricontatto con una città, non una metropoli, ma comunque un ambiente urbano. Districandomi nel traffico raggiungo l’hotel, vengo accolto dall’omino del garage, ci capiamo a gesti, la mia Nissan viene ingoiata da una struttura metallica che si preoccuperà di alloggiarla in uno degli scomparti di un grande edificio, come quei garage automatici che si vedono in Fast and Furious Tokyo Drift, ma più lento e meno scintillante. In cambio ricevo un cartoncino, tanti inchini e le indicazioni per la reception. Sbrigo le formalità, la mia camera non è ancora pronta, quindi esco, sotto la solita leggera pioggia a esplorare i dintorni. L’attrazione penso più famosa ma sicuramente la più vicina è la torre bianca che offre una vista panoramica sulla città e sul Goriokaku. Viste le nuvole e il grigio la vista sulla città non era una priorità ma ero curioso di vedere dall’alto la fortificazione a forma di stella che vi appare appena cercate informazioni sulla città. Si tratta di una cittadella fortificata in stile italiano che rispetto alle tradizionali fortificazioni giapponesi dava la possibilità di ospitare più cannoni e quindi di avere più potenza di fuoco e fu eretta per difendersi dai possibili attacchi da parte dei russi. A parer mio la torre andava costruita un po’ meno a ridosso della stella per permettere una visione migliore. Anche qui vi sono numerosi modellini che raccontano come era la vita nei secoli precedenti. Lasciata la torre mi addentro tra le mura fino a raggiungere l’Ufficio del Magistrato, che è l’edificio tradizionale che si vede al centro della stella osservandola dall’alto. In realtà, come molte strutture, è stata ricostruita e ristrutturata con cura, come sempre via le scarpe e si cammina lentamente e silenziosamente tra le pareti di legno e di carta, non c’è molto all’interno ma i pannelli illustrati e le luci giuste me lo fanno apprezzare. Dopo altri passi, tanti passi, nel parco, decido di tornare in hotel giusto per darmi una rinfrescata e uscire poi per cena. La pioggia aumenta un po’ così decido di entrare nel primo locale indicatomi da una signora sul marciapiede. Si presenta bene, scarpe lasciate all’ingresso, tante piccole stanzette separate da porte scorrevoli, mi vengono dati infiniti fogli plastificati di menù, c’è qualche fotografia, qualche parola buttata a caso in inglese. I ravioli sono ottimi, alla temperatura giusta di fusione degli acciai, il sashimi di montone è eccezionale, l’odore di fumo che impregna tutto un po’ meno. Anche questa volta mi è successo di restare impressionato dal conto di migliaia di yen quando in realtà non spendo che pochi euro.
Il giorno seguente nel cielo si vede un po’ di sole, ritiro la macchina dalla sua casa di mattoni e acciaio e sono pronto. Attratto dalla particolarità e stravaganza dell’edificio del Vecchio Municipio finisco poi tra le meravigliose stradine del quartiere Motomachi con le sue casette tradizionali. Da qui e dal balconcino del Municipio si gode di una prima vista sul porto di Hakodate, il primo ad aprirsi al commercio internazionale insieme a Yokohama e Kobe. Per osservare meglio porto e città decido di salire sul Monte Hakodate, con i suoi 320 metri sul livello del mare, meno di Parco Europa, altra montagna che è meno di una collina. Trovo parcheggio scartando due van e ad accogliermi c’è un arietta fresca che solitamente c’è ad altitudini ben maggiori. Oggi si che si vede bene tutto, la città, il porto, gli edifici, la forma, tutto.
Tornando sul livello del mare mi addentro in una stretta e tortuosa stradina che porta al Machimangu Shrine, un tempio di dimensioni discrete, avvolto nel silenzio e per niente affollato. All’interno di una fresca foresta è il luogo ideale per fermarmi a pranzare, con il ramen che distribuisce il furgoncino di fronte.
Lasciato il tempio sosto lungo la strada, al solito 7Eleven, per prelevare un po’ di contanti, a differenza dell’altro Giappone, qui sono molti i posti dove non si possono usare carte di credito e pagamenti elettronici. La tappa successiva, il Velodromo di Hakodate, è facile da raggiungere, un po’ meno da parcheggiare, visto che il primo parcheggiatore vede la mia maglietta Alpaca Cycling e mi indirizza al parcheggio degli atleti dove, altri due addetti mi rimandano da un’altra parte ancora. Intravedo una piazzola parcheggio vicino al mare, decido di lasciare lì la macchina e fare due passi a piedi. Raggiunta la struttura del Keirin le mie aspettative vengono stravolte. Pieno di persone sì, tutte però con gli sguardi fissi sugli schermi a seguire altre corse e tutti intenti a scommettere e a seguire le puntate. Come mi spiegherà un amico via messaggio vocale, il Keirin qui in Giappone fu introdotto come alternativa alle corse dei cavalli ma questo lo spiego meglio nel video che uscirà nei prossimi giorni. Mi fermerò poco più di un’oretta ma sull’ovale ci sarà solo una sessione da pochi minuti neanche troppo emozionante.
Torno verso l’hotel in tempo per godere di un tramonto infuocato per poi dirigermi a cena in uno di quei piccoli locali con atmosfera di caciara e pubblico di ogni tipo: una famiglia, due da soli come me, qualche salary man, un gruppetto di ragazze. La mia cena segue quello che credo consigli il menù o almeno così ha deciso il traduttore sul mio iPhone. Quindi prima i kushi katsu, degli spiedini con una frittura leggera, poi uno stufatino di qualche animale a me sconosciuto ma credo ovino e per finire con il solito ciotolone pieno di udon, brodo e carne.
Otaru
Arriva il giorno in cui devo riconsegnare la Nissan all’autonoleggio ma, invece di puntare dritto verso Sapporo scelgo di andare più a nord, a Otaru. Non sono tanti chilometri, circa 230, ma come ormai sono abituato, ci vorranno diverse ore tra statali, un po’ di autostrada e altre stradine. La libertà dell’auto a noleggio consente di scegliere soste, luoghi e tempi. Ho scelto Otaru come ultima tappa per il suo faro ma visto che la strada per arrivarci è chiusa ho deviato verso un’altra collina, quella dell’osservatorio e la scelta è stata vincente. Oltre al faro ho dato una veloce occhiata al canale che rende famosa questa cittadina ma non sono passato dalla fabbrica di whisky Nikka, si quella dell’insegna di Susukino.
Infine percorro gli ultimi 30km dei quasi 1800 di queste due settimane e riporto l’auto a Sapporo, non prima dell’ultimo pieno. La Nissan Note che ho usato è un’ibrida un po’ particolare, si affida a due motori elettrici che spingono le quattro ruote, il motore termico, un piccolo tre cilindri, si accende solo per ricaricare la batteria che alimenta i motori. L’ho trovata piacevole e soprattutto con una buona autonomia. E se ve lo state chiedendo, sì, le stazioni di servizio sono proprio come quelle di Initial D, spesso la pompa di benzina arriva dall’alto e soprattutto la cura e la gentilezza degli addetti è impareggiabile.
Chitose
Per la mia ultima notte in Hokkaido ho scelto Chitose invece di Sapporo, avendo un volo aereo da prendere al mattino preferivo essere più vicino all’aeroporto invece di dovermi fare un’oretta di treno. Chitose che è una striscia di case e di alberghi attorno alla stazione, almeno, questo è ciò che ho avuto modo di osservare arrivandoci stanco, a fine giornata. Probabilmente ha molto altro da offrire ma per me è tempo di mangiare qualcosa, fare un bel bagno caldo e preparare gli zaini. Con la navetta gratuita dell’albergo che mi porta fino all’aeroporto si conclude la mia esperienza in Hokkaido. Un Giappone diverso dal Giappone che ricordavo. Tanto verde, poca confusione, animali, natura, acqua, senza però rinunciare all’organizzazione, ai servizi e a tutto quello che di bello ricordavo del Giappone.
Tokyo
Il viaggio in Hokkaido è finito ma non quello in Giappone e, visto che a Tokyo ero già stato nel primo viaggio, questa volta non ho particolari cose da visitare nella mia lista, ho deciso di fare un giro dedicato ad alcune delle mie innumerevoli passioni. Come immaginavo, dopo due settimane a guidare nel verde e a visitare luoghi tranquilli, arrivare a Tokyo ha avuto un impatto devastante. E vi assicuro che per quanto Sapporo sia una metropoli da due milioni di persone sembra una qualsiasi cittadina se paragonata alla capitale. Gente ovunque e a tutte le ore. Dopo il caos iniziale riesco facilmente a orientarmi e prendere il treno giusto per raggiungere Ginza, il quartiere dove ho prenotato l’albergo per le mie ultime tre notti in Giappone. Mi accoglie una pioggia leggerissima. Lascio lo zaino più grande in albergo e per impiegare quell’oretta che mancava all’orario del check-in esco a camminare, ancora vestito da aereo. Devo confessarvi che questo è stato il mio primo viaggio in cui ho deciso, per i voli aerei, di utilizzare i pantaloni della tuta. Per molti sembrerà una cosa normale, ma io ho sempre viaggiato vestito come mi vesto di solito, la tuta è sempre stata per me un indumento riservato all’ambito sportivo o casalingo. Beh ci ho messo una vita a scoprirlo ma cavolo, si può viaggiare in tutta e si sta alla grande!
Tralasciando questo, ho preso uno degli ombrelli trasparenti che tutte le strutture mettono a disposizione degli ospiti e ho iniziato a camminare. Come dicevo non pioveva molto ma il vento che continuava a soffiare e cambiare direzione portava l’acqua un po’ ovunque. Prima missione i negozi e il museo Seiko. Prima di partire per questa vacanza il mio orologio quotidiano, un Seiko Baby Alpinist, è rovinosamente caduto in terra. L’orologio non si è fatto nulla e continua a funzionare e segnare il tempo bene, ma la lancetta dei piccoli secondi si è staccata. Dopo una breve visita alla Boutique Grand Seiko, gli orologi di fascia più alta del brand, mi sono così recato in assistenza, dove un signore anziano con camice da medico me lo ha guardato e mi ha rassicurato sul fatto che il movimento sta bene, unica pecca è che me l’avrebbe tenuto due mesi per l’intervento. Ho ringraziato e l’ho rimesso al polso. Poco distante il Museo Seiko di Ginza. Una struttura piccola ed elegante, con ingresso gratuito, tappa obbligatoria per tutti gli appassionati di orologeria e del brand. L’esposizione è su più piani, ognuno dedicato a degli anni specifici, dal passato al presente. Vi lascio giusto un paio delle decine di foto scattate. Successivamente ho fatto un salto all’altro negozio Seiko, sempre nello stesso isolato. Ero curiosissimo di provare i nuovi King Seiko da 36mm che, sulla carta e in foto, erano perfetti per me. Orologi bellissimi, come mi aspettavo ma, una volta provato al polso, non ho provato quell’emozione che reputo fondamentale per confermare l’acquisto e così, ho ripreso l’ombrello e sono tornato verso l’albergo, non prima di dare un’occhiata al Nissan Crossing Cafè dove oltre ad una Formula E erano esposte una Skyline 2000 GT e una piccola Datsun che ricorda le nostre Fiat 600.
Per Tokyo ho scelto uno dei tanti hotel standard che si trovano, quelli con camere piccole e bagni ancora di più ma forniti di ogni tipo di comfort e con una posizione comoda per almeno un paio di fermate della metro. Mi rinfresco con una doccia, cambio d’abito ed esco di nuovo. Continua a piovere quindi opto per una visita al nuovo negozio di Tamiya, il marchio di modellismo che ha segnato la mia infanzia con le Mini4wd e la mia adolescenza con i modelli radiocomandati. Consigliato a tutti gli appassionati di modellismo. Molto bella la nuova disposizione a blocchi tematici, quello precedente era forse più grande ma più confusionario. Mentre ero in viaggio con la metro ho finalmente capito che quell’etichetta rossa con la croce ed il cuore bianco sono assegnati a persone che hanno un’invalidità o necessità di assistenza medica, anche dove non visibile. Così da ricevere delle attenzioni in più, tipo posti riservati o precedenze, senza dover dire niente. Per me e per la mia invalidità non visibile è una gran cosa, bravo Giappone.
Riprendo la metro e vado in direzione Omote-sando, ho appuntamento con un collega italiano che lavora in Giappone da più di vent’anni. Andrò poi a cena con lui e parleremo qualche ora non tanto di lavoro che, a quanto pare non è tanto differente dalla mia quotidianità, ma dei vari aspetti del vivere in Giappone. Dai rapporti interpersonali, ai trasporti, alle spese, ai servizi, un po’ tutto. Con le sue parole ho la conferma di quella che ormai è la mia idea da anni, che sia un posto dove mi piacerebbe vivere ma non in una grande metropoli come Tokyo, ma un po’ fuori, poi certo in Hokkaido sarebbe fantastico. Al ritorno decido di passare da quel caos fatto a forma di incrocio a X che è Shibuya, esattamente uguale a come me lo ricordavo ma, se possibile, ancora più affollato.
La seconda giornata a Tokyo è iniziata con il sole ed è stata una giornata in cui mi sono letteralmente trasformato in una pallina da flipper, rimbalzando e sbattendo da una parte all’altra dell’immensa città. Che sembra una cosa difficile ma non lo è affatto, la rete della metropolitana è facile da usare e permette di arrivare ovunque, poi ora la Suica card o gli altri metodi di pagamenti elettronici si possono mettere sul proprio iPhone e quindi è un attimo. Non penso in vita mia di aver usato così tanto le mappe anche per la navigazione a piedi, ma non ero il solo, è il metodo più facile per orientarsi in questo caos. Prima tappa alla testona di Godzilla che sbuca dal tetto di un grattacielo, i dintorni sono zozzi e ci sono un sacco di persone in coda per una sorta di lotteria, se non l’avevo già scritto prima, i giapponesi sono campioni mondiali di stare in coda ordinati e silenziosi.
Prossima fermata Shunjuku, un vivace quartiere ideale per comprare cose. Mi dirigo diretto da Liberty Walk, per poi fare varie soste per regalini vari, spoiler: ci tornerò anche il giorno seguente per completare l’opera. Anche qui, tantissima gente, confusione ma non rumore, o almeno, non il rumore che ci si aspetterebbe da una zona così affollata.
Anche se c’ero già stato visto che mi trovo a pochissima distanza e che il clima è perfetto, un po’ caldo ma perfetto, decido di incamminarmi per i viali alberati che compongono il parco dove c’è il Meiji Gingu. Il santuario fu costruito un centinaio di anni fa in onore dell’imperatore Meiji e di sua moglie, distrutto durante la seconda guerra mondiale e ricostruito negli anni sessanta.
Passeggiando verso la Tokyo Tower, quella che sembra la Tour Eiffel ma in un fighissimo arancione, scopro una sorta di padiglione di tempio letteralmente incastrato tra i grattacieli. Poco distante dalla Torre invece passo attraverso un cimitero con le lapidi e le assi in legno di cui ancora non ho capito il significato per poi trovare un sacco di statuette, divinità che proteggono i bambini e infine un altro tempo, il Toyo.
Dalla confusionaria e affollata Akihabara non avrei dovuto neanche passarci, ma le mie care amiche Cimi mi hanno chiesto di prendere un paio di bamboline che a quanto pare si trovano solo qui. Non è stato facile districarsi tra le centinaia di negozi e negozietti incastrati nei vari piani dei grattacieli ma alla fine le ho trovate e, con mia sorpresa, c’era il limite di quantità sull’acquisto. Missione compiuta.
Approfitto del sole ancora alto e brillante per dirigermi verso un’altra zona della città, che dieci anni fa avevo visitato con il cielo grigio e la visibilità ridotta. Ammetto che preferivo il vecchio Gundam RX78 a quello nuovo, l’Unicorn, ma è comunque un bel robottone. Ma questa volta non sono venuto fin qua per la statua ma perché ricordavo della vista alle spalle della piccola Statua della Libertà e questa volta il panorama sulla città era bellissimo.
Torno all’hotel, lascio lo zaino e mi incammino verso Tsukiji, altra confessione: in questo viaggio non ho ancora mangiato sushi. Ma rimediare è facilissimo nel quartiere che ospita il mercato del pesce. Anche se non è ancora orario di cena, per le mie abitudini, mi sono ormai adattato al mangiare quando ho fame tanto si trova sempre qualcosa di aperto e quasi sempre di mediamente libero o affollato. Inutile dire che anche se il ristorante che ho scelto qui è assolutamente nella media, rispetto a ciò che si è abituati in Italia salirebbe molto in alto in classifica. Mentre rientro in hotel mi viene in mente che non mangiavo sushi da tantissimo, probabilmente da prima della pandemia.
Ultimo giorno di vacanza, ancora pioggia. Me la prendo con comodo, scelgo di andare in treno fino a Yokohama. Non per le gomme ma per Nissan, il suo Quartier Generale e soprattutto il quarantesimo anniversario di Nismo, la divisione sportiva. La stazione di Yokohama è a tutti gli effetti un enorme centro commerciale, illuminato e colorato, affollato, caotico ma non troppo rumoroso, questo è un mistero che non capirò mai, da noi bastano dieci persone per fare caciara, qui ce ne sono tantissime e i livelli di volume sono tutto sommato bassi. Esco, piove, vento che te la butta addosso, impiego qualche istante a orientarmi tra i ponti grigi e i palazzoni, prendo come punto di riferimento i canali d’acqua della baia e arrivo davanti a quelle che sono state le icone, le auto sportive che avevo visto solo sul videogioco GranTurismo. In successione una Skyline R32 in livrea Calsonic, la epica R390 GT1 e la mostruosa R92CP, per poi spostarsi al presente con la Formula E e la Z da GT500. Ma non è tutto, perché oltre a queste leggende c’è lo spazio espositivo con le auto del brand, come la Note e-power che ho guidato in Hokkaido, le keicar e soprattutto lo spazio dedicato alle tre edizioni speciali di Nismo, 370Z, 400R e 270R, anche queste oltre che rare viste solo su schermo. Vedere tutto ciò dal vivo è stato estremamente emozionante per un appassionato come me ma sono sicuro che susciterebbe emozione un po’ a tutti. Infine ho trovato quella che sinceramente in foto e sui video non avevo apprezzato del tutto, non mi riferisco alla possente GTR ma alla Fairlady Z, quelle che da noi chiameremmo Z400 ma che chiaramente non viene importata. Si tratta di una coupé compatta, trazione posteriore e cambio manuale, 400cv e poco più. Anche troppi per i miei gusti (e per le tasse italiane) ma assolutamente in linea con le bestie che ci sono qui. Bella e anche possibile, i prezzi qui sono decisamente accessibili, poi vabbè la versione Nismo con il suo grigio è uno spettacolo.
Con gli occhi commossi torno verso Tokyo per venire investito dal caos di Shibuya e camminare verso la più tranquilla Shinjuku, dove ho preso gli ultimi regali per genitori, amici, conoscenti e anche qualcosina per me. Faccio merenda in uno di quei locali microscopici dove si ordina da un totem e si riceve poi il piatto quando urlano il tuo numero, insieme a me diversi salary man appena usciti dalle mega aziende. Altra passeggiata, poi rifaccio il bagaglio, cena leggera e buonanotte.
Del viaggio di ritorno segnalo solo lo spettacolare passaggio sopra la Groenlandia e il Mare Artico, la vittoria a Monopoly dopo mille tentativi e il fatto che sono rimasto sveglio per tutto il viaggio. Compreso il ritardo di un’ora per il Parigi-Milano. Questo mi ha permesso di arrivare a casa e, dopo una veloce doccia, andare a dormire secco fino al mattino dopo. Zero jet-lag.